 
La sveglia antica
  del nonno
  spezzetta il tempo
  batte
  come un cuore.
Attendo
  e il telefono è là.
  Sotto la finestra un cane
  parla alla notte.
  Una mosca sonora
  gira conversa corre - dove?-
  Sto collazionando
  vecchi copioni per la stampa.
  E aspetto
Come inatteso
  il trillo
  spaura le voci del silenzio.
  La mano che si secca d'anni
  indugia
  il cane a pancia vuota
  urla sotto il balcone
  e la sveglia antica
  nel biedermeier che resiste al tarlo
  accelera i suoi battiti
  quasi extrasistoli di tempo.
"Pronto".E' il figlio: la sua voce
  droga
  come linfa di vita.
  Un bimbo!
  E' nato un bimbo!
Appenderò
  ad un raggio dell'aurora
  il fiocco bianco.
Ferruccio Centonze
"Talità kum", disse,
  e il sole
  fra palme di tramonto accese il mare.
Tumultuava la folla
  dentro la sinagoga
  e un uomo entrò correndo e disse:
  "La figliola di Giairo, Maestro!".
  E altre cose disse.
Nella casa di Giairo 
  dormiva la fanciulla 
  l'eterno sonno.
  Ma nella luce dell'uscio 
  il mantello sbattè come una vela.
  "Talità kum" disse, entrando il Maestro 
  "surge".
  Nel corpo 
  fisso di morte 
  fermo d'alabastro 
  brividi corsero, 
  aghi di sole.
  Strizzò gli occhi 
  e guardò alla lama di sole che lampeggiò 
  tra ciglio e ciglio. 
  "Alzati e cammina".
  Il velo cadde e abbrividì ogni suono 
  nella casa di Giairo.
  E lei si alzò,
  che ritornava 
  di là dell'ultimo confine.
  Disse:"Dov'è? Dov'è la Voce?"
  Ma il Maestro già andava,
Andava e va.
  E va. Come ogni cristo
  verso il sacrificio.
Ferruccio Centonze
Io li ho veduti. Erano là, 
  cadaveri pieni di piaghe. 
  La morte 
  li aveva allineati sulle dighe 
  sulle dune sui monti negli igloo. 
  Qua e là paludi 
  e valli raggrumate e croste 
  di terra rattrappita. 
  Teste di lardo
  con strisce e piaghe e bozze 
  rampollavano dal fango
  e sulla fronte 
  avevano una stella a sette punte.
  Cento, tremila (centomila?) 
  con bocche enormi aperte a mangiar pietre 
  nella creta dei fossi. 
  Centomila, duecento, un'infinita
  fila si perdeva all'orizzonte
  e piangeva il cielo rosso, e la distesa 
  del mare tamburava sorda 
  sui moli deserti e i camposanti 
  senza fiori, sulle fosse aperte. 
  E non c'era più fiume 
  né torrente né pozzo né favilla di vita
  e inaridiva il pioppo e si schiantava il melo 
  e cadevano siepi. 
  Il gran silenzio 
  avvolgeva la roggia e la miniera 
  e i capannoni, e non s'udiva
  negli atri vuoti voce di studente.
Così nel sogno.
  Poi l'implacabile cicala della mente 
  mi aprì gli occhi.
Chissà…
  forse "s'uccide la coscienza"
  giorno per giorno, e nell'oblio
  cade la parola di Matteo: "In verità 
  vi dico di vegliare
  perché né il giorno 
  né l'ora conoscete".
Ferruccio Centonze
Stagioni 
  l'una nell'altra 
  dentro un osso. 
Anni del calendario 
  a imbuto 
  come cartocci del semenzaro
  avvitati nel fegato di un uomo:
  bipede a corda
  carico di boria
  cui un neo che s'inquini 
  sbrecca i pezzi del tempo
  annidati nel "vago".
Gira sui tetti
  la banderuola 
  dai secoli dei secoli 
  e si ripete l'uomo.
  Fino a quando 
  l'Angelo
  non aprirà il Settimo Sigillo.
Ferruccio Centonze
Nel Palazzo
  batte la Paura
  con le nocche dure
  dell'incubo notturno
  - il pastrano nero
  lungo sugli stivali
  e la celata d'acciaio -.
Sventrate
  le casseforti, sparita
  ogni riserva. Sfiuma
  nei corridoi, da grondaie di gelo,
  puteolente il liquame,
  invade i corridoi, svicola
  nelle stanze.
  I contratti
  con firme di coscienza 
  sono sommersi.
Dalle caserme
  sommesse voci, trapestio
  sui viali.
La Paura
  strappa pigiami da corpi infreddoliti,
  guazzano i piedi – parestesie
  ai talloni, scarpe senza stringhe,
  il visone buttato sulle spalle -.
  Dove?, da dove?". "Dietro la casa,
  forse di là".
Ma sui crinali,
  nelle forre nei tratturi
  sul padùle di Nìnive
  non c'è spazio di cielo
  perché il Cielo
  solo una volta concede il suo perdono.
  Contro l'orizzonte
  siluettano forche: nodi di pazienza
  preparati negli anni.
Non c'è scampo:
  torme di bambini
  da ogni monte da ogni ansa da ogni pietra
  chiedono perché son morti
  -	hanno braccia di canna, volti fatti d'osso -. 
Uno sputo di sole fra gli scuri.
Gli occhi si riaprono
  e nel Palazzo
  riaffiora,
  dal fango diaccio dell'incubo notturno
  la Sicumèra.
Nei tuguri nelle case perse
  nella fame antica
  col primo sbalzo d'alba
  miagola la Paura ad occhi aperti 
Col primo sbalzo d'alba.
Ferruccio Centonze
Ho mille occhi
tutti per cercarti
su rotabili nere,
davanti alle vetrine,
dentro gli empori,
a Banja Luka,
sul sagrato delle chiese
calpestate derise insudiciate –
nei giardini,
sul greto dei fiumi,
nei campi di Polonia,
ad ogni svolta di strada,
nella torre saracena,
sulle rive del Xanto,
nel Guam,
nei distretti del Palisa,
nell'Ossola,
nel fuoco di un tramonto.
Iridi pazze
mille mille occhi,
slarghi di follia,
brughiere
intricate di smerghi
e il tempo si dilata
si contrae si accende,
il tempo:
un annacquato lungo
infuso di morte
bevuto goccia a goccia –
Zolle di pensieri
staccate 
dai campi acquitrinosi 
della memoria.
Mille mille occhi per cercarti.
Chi sei , un volto
un respiro  gli anni miei perduti?, chi ,
chi sei? Forse Eleonora
che spezzò il pane
e bevve il vino
della scapigliatura?
O Merìca
che coglieva la yuca
e cuoceva focacce di cassàva?
Cercano gli occhi i mille occhi
cercano ancora
nei roveti,
sulla ghiaia di Sistiana,
nei pozzi di Opcina,
fra le doline,
nell'eco di una valle
fra le sabbie
nello scirocco, nel sole di gennaio
dolce grigiastro amaro –
fra le rovine e i crolli
del giugno del luglio del settembre
e dell'aprile
Goccia a goccia dal calice
cadeva
il sangue di Cristo –
cercano 
fra strade disperate
perse nel tempo.
E il rullo avanza e pesta
e preme e stira.
E livella.  Il silenzio 
dilaga. Nell'aria 
ferma ,soltanto il crepitare
della Geènna.
Ferruccio Centonze
"Il faro" 27-2-'74
"Non seminare cattiva semenza
   nei solchi
   dell'ingiustizia", predicava
   l'Ecclesiastico alle turbe:
   voce senza eco.
   Nel fango, sui marciapiedi
   delle metropoli,
   sugli scogli di Dover, 
   fra i tuguri nei suburbi
   dell'Ohio, ad Oslo, sul pavé,
   fra le nevi di Svezia
   nel soffio degli scirocchi e del mistral
   concime di cadaveri
   alimenta fiori di violenza.
Non esiste più smania di futuro
   l'accidia s'incrocia con la bestia
   l'ozio dilaga mentre la catena
   inghiotte svuota
   quello del tempo pieno
   il robot
   che marca il cartellino
   e porta alla casa del quartiere
   soltanto pane.
   O scarpe.
"Un giorno dura un giorno"
   Così la capra.
   O il mulo.
   Trionfa dai mass-media
   il "tutto a posto".
   Ci prendiamo in giro. Ancora.
   Come quando 
   ci ritrovammo i panzer per le strade. 
Ferruccio Centonze
Grappoli di mutuati nelle antisale
  dei medici di base.
  Stuoli di diplomati negli elenchi
  della manovalanza.
  L'attesa è una pietra 
  dura.
Riaperte le porte degli atenei:
  vi bivacca dentro il domani.
  Sciamano, davanti ai portoni
  delle scuole,  a coppie,
  maturando pubertà violenta,
  i tredicenni.
  Nelle prigioni fremono gli internati.
  L'attesa è una pietra
  dura
Premono, davanti agli ospedali,
  visi di cera.
  I vecchi, inutile ciarpame,
  maturano soltanto
  prospettive di fosse comuni.
  L'attesa è una pietra
  dura.
Ma il vento s'insinua tra gli scassi
  dei monti,
  fischia  s'ingrossa
  picchia giù dai colli,
  sracina i boschi, svelle le banchine
  slivella i mari.
  Il cielo è un piombo
  fuso.
Fuggono, invasati, coi capelli spersi
  su spalle di singhiozzo
  i figli di nessuno
  la polverina bianca, il cucchiaio
  e la siringa, e l'accendino
  e il filo d'acqua che cola dagli orinatoi.
  Sale, nell'aria disperata, l'invocazione:
  Ritorna, Cristo! Tu solo puoi salvarci
  Libera nos da questa attesa
  di pietra. 
Ferruccio Centonze
Il caffè
  versato sul lenzuolo,
  il fuoco della cicca sul tappeto
  cova morde consuma, ne disvela
  la trama!
Oggi c'è astio nelle cose
  rimproveri di nebbie nel cervello;
  gengive di miseria sulle barche
  dell'isola di Kapra,
  spurgo 
  di trigliceridi in "The Beverly Hills diet".
"Il pigro è lapidato con lo sterco di bue"
  così la voce del figlio di Sirach
  dal tempo…  una boutade ora.
Dormono evasioni sui marciapiedi
  quelli del "buco"
  sulle strade di gesso.
Rimbalza contro il cielo
  vox clamantis in deserto:
  "il flash
  dell'andare del Sapiens
  è tutto qua?
  E' tutto qua?"
La porta 
  sbatte con violenza
  s'è sferrato il battente
  sulla fortuna di vento 
  sfuggito alla lusinga dell'incrocio di strade.
  Slampa una fiamma
  trema nel tuono il bilico dei vetri.
L'alfabeto di Dio?
Ferruccio Centonze
I° Premio "Elimo 1981"
Cercava 
  dentro il bidone della spazzatura
  febbrile nelle mani
  e infilava ogni cosa
  in una sacca che aveva accanto a sé
  una gruccia, un tegame
  un libro, un mozzicone
  di manico di scopa,
  pezzettini di stoffa colorata -.
  Indossava una tuta
  con ricami di tempo e di miseria
  e ognuna delle scarpe 
  era legata a due passate 
  con spago bianco fra la suola
  di gomma e la tomaia.
  Gli occhi spiritati
  frugavano qua e là fra strada e strada
  per allarmi improvvisi:
  si capiva
  per quel punto di ruga
  che s'aggrondava proprio in cima al naso.
  Cercava.
  Poi tirò su qualcosa
  una cornice rotta
  con un vecchio ritratto e corse via.
Il tempo aprì una porta e la rividi.
  Anche lei
  zappettava così con i monconi 
  delle braccia.
  Cercava fra le ordure
  dentro il bidone
  in un mattino del quarantatrè.
"Cerchi pane?"
  "No", disse, "cerco la bambina"
Ferruccio Centonze
Portavi 
  sulle fragili spalle
  il peso dei millenni
  la genesi
  le stimmate del tempo.
Scontavi 
  I peccati del mondo.
  Crucis Via
  si rinnovava tutte le mattine
  con lo squillare della campanella.
Sostava Cristo paziente
  sulla panchetta della Prima "C"
Scirocchi di tempeste, piogge, nebbie
  e il tuono e il sole
  ti stampavano immagini di gioia
  negli occhi rassegnati:
  vivevi la tua morte
  così come innamora
  le mele del giardino il dolce autunno.
Sostava Cristo paziente 
  sulla panchetta della Prima "C"
Venne maggio pietoso 
  -  pietoso maggio -
  per te venne Antonina:
  sconfinati orizzonti
  aria rarefatta valli gigliate, sabbie
  di secoli
  zampilli d'acque eterne
Ora più il sole
  non dà tepore al Cristo
  E' vuoto il banco della Prima"C"
Ferruccio Centonze
'Mpruvvisa
  comu quannu
  lu celu è chiaru
  e un tronu s'asdirrupa,
  arriva la battuta fulminanti:
  tri paroli
  jttati ddà
  comu benzina supra lu tizzuni.
Quali 'na maraggiata di sciloccu
  chi sbatti 'nta li rocchi e po' stracìma,
  si spanni la risata
  scugnannu li silenzi di li gnuni.
  Si spanza, si sbiddica
  la cumàrca
  sintennu dd'omu
  calmu, pinzirusu,
  li labbra stritti
  l'occhi a vanidduzza.
   «Omu d'azzaru» 
  dici quarchedunu
  mentri s'asciuca l'occhi cu li manu,
   «sicuru, friddu, 'na 'ncunia di firraru».
Comu 'na cutra di niurùmi e negghia
  cala la notti e la cuscenza è sula:
timpesti,
  tòrtuli di ddaunàri
  sutta la curazza,
  crozzi senz'occhi, scrusciu di catini,
  cani arraggiati cu denti comu chiova.
  Di lu celu 
  scinni un slampìu di focu, zichiànnu.
L'azzaru 
  si torci, si prichìa,
  si sciogghi comu cira.
Cùlanu di la 'ncunia
  lacrimi d'omu.
Ferruccio Centonze
Improvvisa
  come quando
  il cielo è chiaro
  e un tuono si sdirupa,
  arriva la boutade fulminante:
  tre parole
  buttate là
  come benzina sul tizzone.
Quale una mareggiata di scirocco
  che batte sulle rocce e poi tracìma
  si slaga la risata
  smovendo i silenzi dei cantoni.
  Si spancia, si sbellica
  la brigata
  sentendo le parole di quell'uomo
  calmo pensieroso,
  le labbra strette,
  gli occhi semichiusi.
"Uomo d'acciaio"
  dice qualcheduno 
  mentre s'asciuga gli occhi con le mani,
  "sicuro freddo
  come la dura incudine del fabbro".
Quale una coltre di nerume e nebbie
  cala la notte e la coscienza è sola!
  Tempeste, incubi di bufere
  sotto la corazza,
  teschi senz'occhi, scroscio di catene,
  cani rabbiosi con denti come chiodi.
  Dal cielo
  cala zigzagando
  uno slampìo di fuoco.
  L'acciaio si torce, s'attrappisce
  si scioglie come cera.
Colano dall'incudine
  lacrime d'uomo.
Ferruccio Centonze
O nebbie, o di Poseidone
cupa stagione!
Torna dal tempo 
il canto breve
l'ammonimento
di Tzang-Giang-Jamsò
non aprire il tuo cuore
alla donna che ami
segretamente -.
E invece
ti vagheggiai dolce,
bocca di mela,
ti svelai
ogni piega, ogni pensiero.
Fu come se un vento,
una follia di vento 
spazzasse gli anni,
e scordai la voce
della quadriglia
degli Indios-Piaròa
io, vecchio,
danzo nell'amàca:
i miei piedi sono freddi -.
Poi un mattino
quando il cielo
gemeva acqua, e sulla grande strada 
un uomo abbaiava, povero,
un mattino
fu la tomba del sole
fine della fine.
Forse
l'aver posato il piede
sopra il collo spezzato
del leone
fu sadica
compensazione 
alla tua nevrosi.
O forse la paura
di mostrarti diversa,
di mostrar le pulsioni
del cordone ombelicale 
attaccato alla terra
infiammata.
«Larme» dal tempo:
il rimpianto 
del pescatore d'oro e di conchiglie
rimbaudiano
Dire que je n'ai pas eu souci de boire -.
Ferruccio Centonze